Perché il tasso di abbandono delle postazioni in Pronto Soccorso e in 118 sta crescendo dovunque? Cosa c’entra la ferita morale subita dal dipendente e in cosa consiste?

Ad oggi, qualsiasi tentativo di arginare la fuga di infermieri e medici dal Pronto Soccorso e dal 118 sembra sia inutile. Aumenti di stipendio e chiamate a gettone hanno un solo effetto: prosciugare finché si può le casse delle Regioni e dello Stato, che quando sarà dichiarata finita l’emergenza covid-19 chiuderanno i rubinetti e inizieranno a chiedere conto degli errori commessi e delle mancanze di un sistema sanitario dove – oggi – la disparità fra aree è talmente macroscopica da suscitare negli stessi politici incredulità.

L’aumento delle richieste di professionisti preparati da parte della sanità privata, e la crescita degli impieghi di personale a gettone stanno desertificando le unità operative che si occupano di emergenza, 118 e Pronto Soccorso in Italia. Come detto, non è più (forse non lo è mai stata) una questione di stipendio. E’ una questione di capacità operativa e di ferita morale nell’esercizio della propria attività. Ma cos’è la ferita morale?

Una ferita è un danno profondo, che cambia la percezione del proprio lavoro

La ferita morale, che in inglese è definita moral injury, è un danno che viene fatto al professionista sanitario quando è messo in una condizione di stress e sfiducia tali da far venire meno la certezza che il proprio operato possa aiutare realmente il paziente che ha in cura. Generalmente questa ferita è a carico di quel personale che – lavorando in condizioni precarie e con estreme quantità di pazienti – si trova a gestire più pazienti di quelli che potrebbe umanamente aiutare. La ferita morale – quando avviene in situazioni di maxi-emergenza – diventa rapidamente burnout o PTSD. Si tratta del primo sintomo che dovrebbe spingere il professionista sanitario ad attivare un supporto psicologico. Il problema è che – in Italia, oggi – la ferita morale colpisce la stragrande maggioranza dei medici e degli infermieri.

Differenze sottili fra sfiducia, moral injury e stress

E’ chiaro che ci sono diversi aspetti che incidono sulla creazione della ferita morale, e che questa non sia affatto semplice da identificare. Durante il COVID-19 o almeno nella sua prima parte, il personale sanitario ha subito stress morale: vedeva che le sue capacità non erano sufficienti per risolvere la situazione, ma allo stesso tempo capiva e percepiva che attorno a lui c’erano tante forze mobilitate per riuscire a supportarlo in quello che stava facendo, e che in prospettiva la questione si sarebbe potuta risolvere. Nella terza e quarta ondata del covid-19 invece si è fatto fortemente spazio la sfiducia nel sistema e l’inizio del danno da moral injury, ovvero il sanitario ha maturato in molti casi la convizione che qualsiasi sforzo non avrebbe garantito un miglioramento delle condizioni dei pazienti. A questo fatto si è sommato il cambiamento di rotta di molte aziende sanitarie, che hanno iniziato a cancellare o a gestire in modalità “fantasiosa” il monte ore di straordinari fatto dai medici e dagli infermieri. Personale che ha fatto per mesi turni massacranti, per coprire buchi e mancanze, si è ritrovato a fine anno con comunicazioni di ferie cancellate e di straordinari non pagati, per evitare il rischio di un surplus in tassazione critico da gestire e da sostenere. Questo accumulo di comportamenti che non sono in linea con i giuramenti fatti dai medici e dagli infermieri è il punto cruciale attorno a cui si costruisce una patologia da moral injury: si sfiducia il professionista facendogli credere che il suo lavoro e il suo sforzo non sono utili, che se ne potrebbe fare a meno, che l’importante è solo coprire il turno e dare un servizio – qualunque esso sia – al cittadino incompetente.

L’unica soluzione non può essere la fuga

Se quindi la ferita morale diventa un punto di partenza, sottile e infido, per una sindrome  PTSD, bisognerebbe inizare a tenere traccia di ciò che sta succedendo nel proprio ospedale e lavorare per capire quali soluzioni renderebbero la vita dei professionisti più felice, soddisfacente e con outcome in miglioramento per i pazienti curati dalla struttura. Il decorso di questa moral injury, oggi, è uno solo: il professionista abbandona il Pronto Soccorso e il 118. Si accasa in strutture più comode, più facili, con orari di lavoro migliori. Magari peggio pagate, ma è chiaro che il valore economico non è tutto. Se per arginare questa situazione si costituiscono reparti infermieristici (come accade in Lombardia) o si supplisce alla mancanza di professionisti usando cooperative con personale “a gettone” probabilmente si andrà poco lontano. I soldi, alla fine, finiranno. E i problemi peggioreranno: pensate che come indicatore di qualità ci sono aziende sanitarie che usano la sola presenza dei medici. Che siano oculisti, dermatologi, ginecologi o medici di base prestati al PS poco importa. Davanti al paziente da intubare verrebbe comunque chiamato l’anestesista di turno, quando presente. Con le perdite di tempo evidenti che ciò comporta.

Da dove cominciare? Dai fattori centrali e dai fattori in uscita

La prima soluzione che potrebbe essere messa in atto è il miglioramento delle condizioni di lavoro dei centodiciottisti e di medici e infermieri del Pronto Soccorso. Una paga adeguata, certo, ma soprattutto ore libere per equilibrare il rapporto vita-lavoro. Banalmente, dopo che il covid-19 ha generato problemi di insonnia nel 70% degli infermieri, tempo per curarsi. Oggi l’emergenza covid-19 è finita. L’estate aiuta a tenere i numeri dei contagi bassi. Ma l’inverno è già alle porte e c’è una grande verità che non si racconta: il covid-19 aveva abbattuto gli accessi al PS perché le persone avevano paura. In certe realtà gli accessi al PS erano a -50%. Ma il passare del tempo, e la mancanza della famosa “rete di guardia medica 116117” sta riportando le persone a rivolgersi a quel reparto per avere una prestazione immediata. Se a novembre ci ritroveremo per la quinta volta con fattori in ingresso che aumentano a causa della pandemia, avremmo una infrastruttura ancora inadeguata a supportare il personale. Al momento sembra sia stato risolto il problema in uscita, con i reparti di degenza covid-19 fortemente ridotti in tutta Italia. Ma è molto rischioso scommettere ancora su questi fattori. Il tempo per organizzarsi è ovviamente già scaduto. Arriverà almeno qualche promessa a garantire un futuro migliore per chi lavora in Emergenza-Urgenza?