E’ finita. Dopo nove interminabili anni l’incubo dell’infermiera Daniela Poggiali è terminato. La donna – capro espiatorio di una intera categoria – è stata assolta in via definitiva dalla Corte Costituzionale, terzo e ultimo grado di giudizio italiano, perché “il fatto non sussiste”.  Non credo che queste poche parole rendano la dimensione dell’incubo, del dolore, della devastazione che il calvario di un procedimento giudiziario può causare alle persone. Daniela Poggiali era stata definita dal giudice in primo grado, Corrado Schiaretti, come una persona “fredda, spietata, intelligente. Nemmeno lei sa quanti pazienti abbia ucciso”. Correva il 2016 e decine di giornali – locali e nazionali – hanno ripreso queste dichiarazioni. La famosa “iniezione letale di potassio” non era letale. La famosa foto festeggiando la morte in corsia, non aveva nessun nesso. Un anno fa la Corte di Cassazione aveva emesso una sentenza di 250 pagine, un’enormità per l’ultimo grado di giudizio. Nonostante questo, l’appello degli inquirenti. Oggi una nuova conferma: La Poggiali non ha mai ammazzato nessuno. Purtroppo la gente in ospedale può morire, soprattutto se ha 95 anni.

In galera per una foto, siamo davvero a questo? 

La Poggiali ha commesso degli errori? Si, ha posato sorridente di fianco a un morto. Non sapremo mai se è stata una foto voluta, se è stato uno scherzo di pessimo gusto di chi ha scattato la foto, se è stata una goliardata di gruppo molto poco professionale, o semplicemente un errore. Ci si deve scusare per certi utilizzi indebiti dell’immagine, è naturale. Ma non si devono passare 9 anni di calvario. Nonostante il mondo stia diventando sempre più complesso e pervaso dalla logica dei social media, il modo con cui approcciamo ad una notizia rimane salomonico: la Poggiali è colpevole negli archivi di internet, e nessuno restituirà all’infermiera il tempo passato come imputata. Al di là del risarcimento per i giorni passati in carcere (che segnano maledettamente chiunque abbia provato questa situazione) sarebbe necessario un risarcimento per chi ha marciato sulla parola infermiere per screditare una categoria di professionisti.

Ora, come educare inquirenti e familiari sulla realtà della sanità?

Non rimane, oggi, che un solo, semplice punto da sviscerare: quale consulenza, quale supporto e quale conoscenza della materia sanitaria hanno avuto gli inquirenti, i giudici e la giuria, prima di arrivare ad emettere una sentenza tanto abnorme rispetto alla realtà dei fatti? In una società in cui tutto ci scorre attorno come se fosse una folata di vento, il rischio di disintegrare la vita di una persona sulla base di un processo mediatico è davvero elevato. Maggiori rischi li corrono proprio i sanitari, che si impegnano ogni giorno per curare, salvare, accudire la vita delle persone che passano dalle loro mani. Affrontare ogni giorno la morte può portare – come risposta naturale, sintomatica – ad avere un approccio più leggero con l’humor nero. Ma non per questo si può disintegrare la vita di una persona per un’emozione espressa male sui social. Allo stesso modo, il percorso che deve portare un paziente, o i suoi familiari, a chiedere risarcimento per un evento luttuoso o di malasanità deve potersi affidare a persone che siano competenti. Non si può pensare, sempre, di urlare “al lupo al lupo” davanti ad un evento che sarebbe potuto avvenire naturalmente. Gli errori esistono, li commettono tutti e non esiste medico, infermiere, soccorritore o tecnico che ne sia esente. Ma se vogliamo che i sanitari continuino ad essere protagonisti delle cure, dobbiamo anche spingere affinché gli inquirenti sappiano come funziona il sistema sanitario. Senza questa conoscenza di base, qualsiasi denuncia di familiari inviperiti per la morte di un parente può catapultare qualsiasi medico, soccorritore o infermiere in un inferno inimmaginabile.