Il vetro di un convoglio umanitario scheggiato da un proiettile di rimbalzo. Quella crepa visibile su una cosa così trasparente ci racconta l’immenso coraggio di chi sta aiutando il popolo ucraino. Alessandro Conti ha seguito il convoglio che attraversando la frontiera ha portato aiuti umanitari in Ucraina.
C’è sempre una crepa visibile in tutte le foto di Alessandro Conti. Foto che raccontano la storia di un convoglio umanitario che attraversa la frontiera di notte, per portare medicinali, cibo e vestiti dove abbondano paura, sete, fame e oscurità. Sulle frontiere fra Romania e Ucraina ci sono lunghe file, tutti i giorni di macchine e persone. Sono i profughi più fortunati, riconoscibili dalle bandiere stese sui lunotti, che coprono l’intimità di neonati e bambini che dormono, ricordando alle madri – che guidano – dove sono e cosa stanno facendo i padri assenti. Sono tantissimi i giovani figli scappati dalle proprie abitazioni con addosso quello che sono riusciti a prendere. Poche cose impacchettate di speranza, rabbia e paura. Alle spalle non rimangono che gli uomini, precettati fino ai sessant’anni per combattere l’invasore. Raramente gli uomini arrivano alla frontiera con moglie e figli, ma sempre tornano indietro a combattere contro l’esercito russo.
La frontiera, dove il racconto dei profughi ucraini finisce in ritorno
Leopoli, Ternopil, Vinnycja, Chmel’nyc’kyj, Černivci, queste sono le città da cui provengono la maggior parte dei profughi che transitano sulla frontiera di Sighetu Marmatiei. Frontiera dove il mondo del volontariato locale e internazionale prende in carico ogni esigenza ed ogni fardello viene condiviso. Subito dopo le sbarre, l’area di sicurezza destinata alle mamme appena arrivate è un cubo bianco esposto al vento. Nove metri per nove dove i soccorritori hanno l’obiettivo di ristabilire il silenzio e il calore. Chi arriva, riconoscendo quel silenzio e quei piccoli gesti, dal thè caldo ai biscotti, dai peluches per i bambini alle coperte calde, si scioglie. Ricorda che c’è un mondo dove il rumore delle bombe non è la prassi quotidiana. Quell’estratto di normalità scioglie la tensione, anche se non è ancora finita, anche se c’è ancora bisogno di una sistemazione definitiva.
I racconti di chi fugge cercando un aiuto caldo e comprensibile
“Olena, 25 anni con un figlio di pochi mesi, è lì che aspetta un letto. Mi parla del viaggio da Mukachev, compiuto da sola. Il marito si è arruolato volontario e lo può sentire solo una volta al giorno, con whatsapp o SMS. Nei suoi occhi c’è il freddo che ha patito e nelle sue parole il ringraziamento per la grande solidarietà che l’accoglienza le ha dato. Durante il viaggio, tutti i profughi trovano supporto da chi rimane. Ora la sua direzione è l’Ungheria, dove la aspettano alcuni famigliari. Per lei tutto questo è un momento “fortunato”. E’ riuscita a partire in macchina. E’ riuscita ad arrivare alla frontiera. Ha qualcuno che la aspetta in Europa. Suo marito le risponde ancora al telefono. Fortuna. Fortuna, dice”.
Il freddo della frontiera è più intenso, se guardi gli occhi di chi arriva
“In queste zone la temperatura non aiuta. Si va dai -2 gradi del giorno ai -15 gradi notturni, accompagnati dal vento, perenne, che scende verso il mare e taglia il viso come una lama. Ogni incontro con un profugo, ogni foto, ogni storia, finisce con un abbraccio. Nessun virus può fermare l’empatia e la compassione. La tenda della Caritas e del corpo volontario dei religiosi ortodossi è il punto dove gli abbracci si moltiplicano. Tutti coloro che varcano la frontiera vengono censiti, e ci sono tanti minori non accompagnati. In un angolo, su una sedia, ad aspettare con in collo un cagnolino incontro una bambina di 12 anni. Il nostro inglese non è perfetto, ma ci capiamo”.
Fermare la guerra bombardando di buone azioni l’umanità
“Nel freddo della mattina mi inginocchio di fianco a quella bambina. La guardo, cerco di parlargli , abbasso la macchina fotografica. Non serve. Cerco di farla ridere e non ci riesco. Mi sento inerme. Inutile per lei, per il dramma che sta vivendo. Tanti occhi sono diversi, quando arrivano qui, quando si fermano nel silenzio. La necessità di sopravvivere lascia lo spazio ai ricordi, alle immagini vissute, al dolore. Lascio questa bimba regalandole uno snack. Mi guarda con gli occhi vuoti e sfuggenti. Mi ringrazia con un sorriso quasi trasparente e poi torna a guardare la tenda, davanti a sè, in silenzio. Da fotografo, da volontario, da essere umano, ho capito cosa sia l’impotenza. Fuori potrebbero esserci 20 gradi ma il gelo che bisogna combattere dentro è peggio di un vento artico. Mentre il freddo sale, bisogna partire per la consegna dei farmaci al primo rifugio in terra ucraina.
Come ladri, in silenzio e di notte, per portare aiuto
Alle 20, in pieno coprifuoco, superiamo la frontiera con il nostro furgone. 40 minuti di controlli e raccomandazioni che arrivano da un militare che al massimo avrà vent’anni. Un figlio che rimbrotta dei padri che vanno a fare del bene. Che gli chiede di stare attenti. Abbiamo tre furgoni pieni all’inverosimile di farmaci, coperte, alimenti per bambini e adulti. I volontari ortodossi guidano piano, su strade spettrali, senza illuminazione. Non vogliamo incappare in qualche sciacallo notturno – una novità che sta crescendo lungo i confini – ma neppure sfondare le gomme su strade malmesse fatte di sanpietrini. Superata una collina troviamo una croce illuminata, ed uno dei volontari mi fa capire che a breve saremmo arrivati. Il rifugio dei profughi altro non è che un’abbazia ortodossa. Fra i banchi è stato ricavato un centro di smistamento di beni di prima necessita. Nella canonica è stata allestita una sistemazione per donne e bambini in attesa di superare la frontiera. Al momento ci sono 50 persone, per lo più bambini e giovani madri. Ci fermiamo un pò con loro dopo aver scaricato ciò che serve per sopravvivere. E’ un castello dei bambini, che qui sono un po’ più al riparo dalla guerra, ma non ancora in salvo. Qui sono loro l’unica cosa bella, che ridona forza d’animo e speranza. Loro che fra giocattoli e scatole di medicinali trovano spazio e tempo per giocare con normalità. Quella sottile normalità, irripetibile, che gli permette di sentirsi a casa anche se casa non è .