Che cos’è il Prague OHCA e perché ha fatto discutere all’American College of Cardiology 2021?

A giugno, durante il congresso dell’American College of Cardiology, un gruppo di ricercatori dell’Università Carolina di Praga ha presentato un studio che ha fatto molto discutere. Un sottogruppo di pazienti che aveva subito un arresto cardiaco extraospedaliero (OHCA) e che non aveva risposto nè al massaggio, nè al defibrillatore, nè al supporto vitale cardiaco avanzato standard (ACLS), è stato immediatamente trasportato in un centro di assistenza cardiaca e posizionato su un dispositivo per l’ossigenazione extracorporea (ECMO). E’ risultato al termine di questo studio che i soggetti dello studio avevano maggiore probabilità di sopravvivenza degli altri, con una buona funzione cerebrale a sei mesi dall’evento. Rispetto a pazienti simili che ricevono cure standard “in situ” sono visibili differenze nell’outcome e nell’esito dell’OHCA. Lo studio, denominato Prague OHCA, sta facendo discutere sul modo in cui si potrebbe allungare o accorciare la catena della sopravvivenza.  “Si tratta di uno studio clinico randomizzato di grandi dimensioni, pensato per rispondere ad una semplice domanda: L’approccio iperinvasivo è una strategia di trattamento fattibile ed efficace per ridurre la morte nei soggetti colpiti da arresto cardiaco?” ha affermato Jan Bělohlávek, dell’Università Carolina di Praga (Repubblica Ceca), e autore principale dello studio.

Si discute molto di questo studio perché è stato – in prima battuta – un fallimento. L’endpoint primario predefinito, ovvero la sopravvivenza a 6 mesi di pazienti con categoria di prestazione cerebrale 1 o 2 (condizioni cliniche buone) in generale non stava dimostrando nulla di che. L’analisi intermedia ha mostrato i benefici dell’approccio iperinvasivo su alcuni speciali sottogruppi di pazienti. In particolare si parla dei pazienti con età media di 55-57 anni, con ipertensione o malattie coronariche. “Il tasso di sopravvivenza dopo un OHCA rilevato in modo standard – ha spiegato il relatore – era di circa il 12%. Per sopravvivere, abbiamo constatato ovviamente che il paziente deve ricevere un’immediata rianimazione cardiopolmonare (RCP) per aumentare il flusso sanguigno al cuore e al cervello, e uno shock elettrico da defibrillatore per fermare l’eventuale ritmo cardiaco anomalo”. Ma fra i 256 pazienti coinvolti con un OHCA assistito tra marzo 2013 e ottobre 2020 c’erano dati interessanti. L’età media dei pazienti era di 57 anni e il 92% erano uomini. Circa il 45% aveva ipertensione e il 20% una storia di malattia coronarica. Sono stati assegnati in modo casuale a ricevere supporto vitale cardiaco avanzato standard o un supporto iperinvasivo con ECMO.

Secondo i dati, i gruppi di pazienti erano ben bilanciati in termini di caratteristiche di base. Più di tre quarti erano uomini, più di un terzo degli arresti cardiaci si è verificato in un luogo pubblico e i tassi di astanti all’RCP sono stati sorprendentemente elevati fra il 97,7% e il 99,2% in tutti e due i gruppi. Condizioni quindi molto simili che hanno reso il trial davvero interessante.  I pazienti del gruppo di cure standard (gruppo S) sono stati trattati nel sito in cui si è verificata l’OHCA con RCP manuale, defibrillazione, farmaci per invertire l’arresto cardiaco e altri elementi di cura abituale per un arresto cardiaco. Più della metà dei pazienti del gruppo di assistenza standard (55,3%) e il 73,4% nel gruppo iperinvasivo è stato sottoposto a rianimazione per almeno 45 minuti, con un tempo medio di RCP più lungo in caso di ECMO finale (mediana 46 vs 58 minuti; P = 0,037). Un numero maggiore di pazienti del gruppo di assistenza standard ha avuto un ritorno della circolazione spontanea (ROSC) al momento del ricovero (43,9% vs 27,4%; P = 0,012). La sindrome coronarica acuta (ACS) è stata la causa dell’arresto cardiaco in circa la metà di tutti i pazienti e il sanguinamento è stato individuato più spesso nel braccio iperinvasivo (14,5% vs 31,0%; P = 0,014).

Il ricorso all’ossigenazione extracorporea a membrana
I pazienti nel gruppo iperinvasivo (gruppo H) hanno ricevuto anche la RCP meccanica, utilizzando un dispositivo che ha fornito la compressione toracica automatica. I pazienti sono stati trasportati immediatamente in un centro emodinamico dove, se il battito cardiaco non fosse stato riavviato durante il tragitto, sarebbero stati sottoposti a un’ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO). Questa macchina è ormai uno standard in molte realtà. Si tratta di una pompa a membrana che sopperisce temporaneamente al lavoro del cuore e dei polmoni infondendo ossigeno nel sangue e pompando lo stesso agli organi e ai tessuti del corpo. Dopo sei mesi, il 31,5% dei pazienti nel gruppo H e il 22% di quelli nel gruppo S erano sopravvissuti con una buona funzione cerebrale, una differenza non statisticamente significativa.

Come esiti secondari, Bělohlávek e i suoi colleghi hanno esaminato la percentuale di pazienti in ciascun gruppo che aveva recuperato la funzione neurologica e cardiaca 30 giorni dopo l’OHCA. Nel gruppo H, il 34,7% aveva una buona funzione neurologica a 30 giorni, rispetto al 22,7% nel gruppo S, una differenza statisticamente significativa. Il recupero della funzione cardiaca è stato simile nei due gruppi. Il principale vantaggio dell’approccio iperinvasivo è stato evidente in un sottogruppo di pazienti rianimati per più di 45 minuti; 20 pazienti nel gruppo H sono sopravvissuti, rispetto ai sei nel gruppo S. Inoltre, quattro dei sei sopravvissuti nel gruppo S erano stati trasferiti al gruppo H e avevano quindi ricevuto un trattamento iperinvasivo piuttosto che standard.

Il disegno dello studio ha consentito al personale medico di emergenza sulla scena e in ospedale di passare i pazienti assegnati in modo casuale al gruppo S, al gruppo H, o viceversa.
I pazienti assegnati al gruppo H potevano tornare ad essere inquadrati nel gruppo S se l’intervento iperinvasivo si fosse rivelato inutile. Il crossover complessivo (passaggio dei pazienti da uno all’altro gruppo) è stato generalmente basso; dei 256 pazienti arruolati nello studio, 11 (8,3%) assegnati in modo casuale al gruppo S sono passati al gruppo H, mentre nove (7,2%) assegnati in modo casuale al gruppo H sono stati passati al gruppo S.  Secondo Bělohlávek, nei pazienti che sono passati dal gruppo S al gruppo H, il 40% è sopravvissuto con esiti neurologici normali.

Il comitato per la sicurezza e il monitoraggio dei dati dello studio, un gruppo indipendente di esperti il cui compito era rivedere i dati dello studio a intervalli prestabiliti, ha deciso di interrompere lo studio dopo che erano stati arruolati 256 soggetti, quando è diventato chiaro che la sopravvivenza e il recupero neurologico erano superiori nel Gruppo H. Questo è quello che è stato dichiarato da Bělohlávek. Lo studio quindi non ha raggiunto il target di arruolamento prestabilito di 570 pazienti.
La sopravvivenza dei pazienti nel gruppo S è stata calcolata al 22%, più del doppio di quanto previsto dai ricercatori. «Un sottoprodotto della formazione delle squadre mediche di emergenza per condurre il protocollo iperinvasivo è che hanno anche ottenuto risultati straordinariamente buoni tra i pazienti che hanno ricevuto un supporto vitale cardiaco avanzato standard» ha affermato Bělohlávek. Ovvero: non solo l’approccio iperinvasivo è maggiormente vantaggioso per i pazienti rianimati più a lungo, ma anche tra i pazienti rianimati per tempi brevi un approccio maggiormente avanzato porta ad un numero di sopravvissuti maggiore. “Il trasporto tempestivo in un ospedale e il trattamento con ECMO dovrebbero essere presi in considerazione per i pazienti i cui cuori non riacquistano l’attività spontanea con il supporto vitale cardiaco avanzato standard”, ha affermato Bělohlávek. “Tuttavia, questo può essere fattibile solo in circostanze in cui vi è un’assistenza preospedaliera assolutamente ottimale, partendo dall’inizio della catena ovvero eseguire compressioni toraciche da parte di un astante sulla scena dell’arresto con indicazioni telefoniche dal centro di invio delle emergenze, effettuando compressioni ottimali. Subito dopo deve esserci la capacità di trasportare rapidamente il paziente in un centro cardiaco dedicato dove sono disponibili specialisti altamente qualificati”. Non solo: secondo Bělohlávek va considerato anche l’effetto dell’approccio iperinvasivo, per il quale il team si era allenato in un periodo di oltre 2 anni prima di randomizzare il primo paziente. Gli sforzi per migliorare i risultati notoriamente scarsi dopo un OHCA hanno prodotto risultati contrastanti. Una strategia invasiva precoce è raccomandata nei pazienti STEMI con arresto cardiaco fuori dall’ospedale, ma questo approccio nei pazienti NSTEMI non ha ancora dato i suoi frutti.

In chiusura del suo intervento Bělohlávek ha sottolineato un altro vantaggio visto con il protocollo iperinvasivo: “il team si aspettava che solo il 10% dei pazienti in rianimazione per 45 minuti sarebbe sopravvissuto, ma la percentuale è stata più del doppio, anche nel gruppo di confronto. L’addestramento al protocollo ha effettivamente migliorato i risultati nel braccio standard, e lo considero il sottoprodotto più vantaggioso dello studio anche se non abbiamo dimostrato una differenza nel risultato”.