Pensavamo di scrivere un editoriale alla “andrà tutto bene”. Invece non possiamo nascondere rabbia, frustrazione e negatività. Risulta difficile commentare la pandemia dopo due anni in cui sono morti medici, infermieri, soccorritori, autisti in servizio per la salute dei cittadini. Ma bisogna fissare un punto e guardarsi indietro.

Sembra che le date simmetriche nell’ultimo periodo non siano tanto fortunate. Il 20 febbraio 2020, proprio alle ore 20, scoprimmo in Italia il primo caso di covid-19, a Codogno. Due anni dopo, con una società ormai abituata a guardare le previsioni meteo e il bollettino dei contagi, siamo arrivati a 12 milioni e mezzo di positivi registrati, 152.989 deceduti e ancora un milione e 348 mila casi attivi.

La morte non ha prezzo. La dignità si

A fare scalpore, di certo, è l’ultima uscita – a livello comunicativo molto mal gestita – del governo Draghi. 15 milioni come fondo di solidarietà per i sanitari morti durante la battaglia contro il covid-19. Luciana Litizzetto ha stigmatizzato con molta enfasi, e chiara capacità di sintesi, quale enorme presa in giro sembri questa iniziativa. 38 mila euro per vittima, escludendo le vittime di minor peso, ovvero infermieri, OSS, soccorritori e autisti di ambulanza. Oggi arriva la correzione – per certi versi doverosa – di una Commissione Sanità che sembra aver capito l’importanza del passaggio: “ si ritengono necessarie ulteriori iniziative volte a dare compiutezza e organicità agli interventi in favore dei medici e di tutti i professionisti sanitari deceduti o lesi dal Covid-19, apparendo il recente stanziamento di un fondo da 15 milioni di euro da parte del Governo, per gli indennizzi alle famiglie dei deceduti, soltanto come l’inizio di un percorso doveroso”. Come a dire: dobbiamo iniziare con un ristoro, ma le famiglie di chi ha dato la vita per proteggere e curare il prossimo non possono essere lasciate in stato di abbandono.

Il mondo sanitario è cambiato, l’approccio della politica no

Dopo 24 mesi di trincea però, potremmo essere davvero davanti ad un cambio epocale di direzione, con una deriva fortissima che sta disintegrando in pochi mesi le capacità di risposta clinica avanzata dei Pronto Soccorso italiani. Mancano medici, mancano infermieri e manca attenzione alla formazione di questi ultimi. Ancora una volta ci troviamo davanti ad un sistema che dopo l’iniziale collasso si è ripreso, ma non ha lavorato sulle sue fragilità. Un po’ come un pugile che non si arrende al colpo del KO avversario, e torna sul ring per un nuovo incontro senza essersi allenato adeguatamente. Perché tutti i sanitari lo sanno: se una pandemia devastante come il covid-19 è arrivata una volta, può tornare. Magari si chiamerà influenza aviaria, peste suina o raffreddore degli aironi, ma gli indicatori di allarme che ci impongono di prevenire sono tutti accesi e da seguire.

Trent’anni dopo dobbiamo fare una transizione: vogliamo scegliere?

Non è però soltanto il covid-19 che ci pone tante riflessioni. Le più importanti, le più forti, sono di certo quelle imposte da un’altra ricorrenza. I trent’anni del DPR del 27 marzo 1992. Un testo fondamentale per tutto il sistema sanitario nazionale. Lì, in quelle poche ma fondamentali righe firmate dall’allora Presidente Cossiga, si è definito il livello assistenziale di emergenza, la struttura del sistema, il modello per attivare gli allarmi, le competenze delle centrali operativi e la disciplina delle loro attività. Ma non solo: in quel DPR c’è l’anima stessa del Pronto Soccorso, delle sue funzioni in capo alle Regioni, e delle funzioni di TUTTO il personale infermieristico. Certo, una riga forse banale:

“Il personale infermieristico professionale, nello svolgimento del servizio di emergenza, può essere autorizzato a praticare iniezioni per via endovenosa e fleboclisi, nonché a svolgere le altre attività e manovre atte a salvaguardare le funzioni vitali, previste dai protocolli decisi dal medico responsabile del servizio”.

Ma questa è la riga da cui iniziare a ristrutturare il servizio 118 sul territorio, che oggi – bisogna ricordarlo – è spesso nella maggior parte dei casi in capo a preparati e determinati volontari. Fondamentali, che ci sono sempre quando serve. Ma pur sempre volontari. Il personale di riferimento sulle ambulanze, con l’evoluzione delle centrali operative verso il 112, deve diventare sempre di più misto, con un team leader sanitario che abbia competenze e capacità autonome. Al suo fianco i volontari, e – nelle ALS – ancora infermieri e medici che facciano i problem solver e i responsabili, sia da remoto che sul posto quando necessario. Ma, ricordiamolo, non qualsiasi medico purché sia: ci vogliono medici che per vocazione e studio amino lavorare in area critica, in emergenza, in rianimazione. Per questo motivo chi è preparato per affrontare le situazioni complesse del 118 e del Pronto Soccorso deve ricevere benefit in ordine economico, professionale e con le adeguate compensazioni di tempo-vita e di età pensionabile. Perché non possiamo pensare che tutti i medici del Pronto Soccorso siano pronti a saltare su un H145 a qualsiasi età.

Insomma, non dovrebbe restare indietro nessuno in questo percorso. Sarebbe necessario muoversi in sintonia, lasciando da parte personalismi e reclami: sarà possibile realizzare tutto questo, partendo dalle durissime lezioni che la pandemia ci ha imposto negli ultimi 24 mesi? Un punto di partenza – la Carta di Riva – c’è già. Si inizierà a discuterne a Roma nelle stanze dei bottoni, in vista del trentennale?