Da più di quarant’anni l’uso dei palloni ambu è additato come uno dei grandi problemi formativi dell’emergenza pre-ospedaliera. Ma quali soluzioni si possono mettere in pratica per evitare un’ossigenazione errata dei pazienti critici?

L’uso del pallone ambu è ancora oggi una delle pratiche principali nelle attività di rianimazione in qualsiasi tipo di paziente critico. Realizzato dall’omonima azienda e derivato dall’acronimo Auxiliary Manual Breathing Unit, il pallone ambu è per l’appunto il ventilatore manuale per i pazienti critici, sotto sedazione o in arresto cardiaco più famoso al mondo. E’ composto da un pallone ovoidale di plastica morbida autoespandibile, che ha ai due estremi delle valvole unidirezionali: da un lato l’aria esce, dall’altro l’aria entra. Nella parte inferiore, dove l’aria entra, si può connettere direttamente un tubo dell’ossigeno o un sacchetto detto reservoir. Dalla parte in cui l’aria esce invece, c’è una valvola universale per agganciare il pallone a qualsiasi presidio per la gestione delle vie aeree: presidi sovraglottici, tubi endotracheali, cannule, filtri HME, corrugati o le più comuni maschere facciali. 

Perché il pallone AMBU è intuitivo, ma non facile da usare?

Tutti i soccorritori che hanno visto un AMBU sono certi di saperlo usare. Qualsiasi test effettuato sul manichino da parte di un soccorritore, da la certezza di sapere che – schiacciando il pallone – il torace si espande e tutto va bene. Ma la realtà non è così semplice. Ventilare un paziente è una pratica estremamente importante e difficile. La dimensione dei polmoni di un paziente varia in base a tantissimi fattori. Quindi è necessaria una notevole pratica prima di capire esattamente quanto volume bisogna premere, con che cadenza, e con quale forza. I polmoni di un paziente normale possono ricevere circa 500/600 ml cubi di aria. Ma il pallone ambu, nel suo volume completo, ne può spingere fino a 1.600. Inoltre, i polmoni possono ricevere aria in pressioni non superiori ai 30/40 mmHg. Premere con troppa energia può causare un barotrauma al paziente, complicando la situazione e non stabilizzandola. 

Ventilare, tenere la maschera aderente al volto, controllare i parametri e stare attenti ad altri sintomi. Quante mani servono per una corretta ventilazione?

Le prime critiche: dalla formazione al confronto con le pocket mask

I primi dubbi sull’efficacia nell’utilizzo da parte dei soccorritori del pallone ambu sono datati 1983. Uno studio pubblicato su Annals of Emergency Medicine metteva in confronto la curva di apprendimento e di corretta ventilazione del paziente fra l’uso del pallone ambu e l’uso delle pocket mask. Il test condotto da Robert Elling e Johnatan Politis, NREMTP della Regional Emergency Medical Organization di Albany, New York, ha permesso di vedere che su 320 nuovi EMT formati sulla ventilazione con i manichini, più della metà non era capace di ventilare correttamente usando la maschera facciale. Le raccomandazioni dell’epoca però – dopo il COVID – non sono più perseguibili. La ventilazione con pocket mask non è più consigliata visto il rischio di contrarre malattie delle vie aeree. Ma rimane uno dei dati più importanti su cui spingere la ricerca.

Ventilare a mano, ventilare non invasivamente, o dare ossigeno?

Una delle domande che da allora continua a girare nella testa dei formatori è: Durante la CPR quale device è ancora importante per ventilare il paziente? Oggi esistono metodi di ventilazione meccanica molto efficaci, rapidi da applicare e semplici da impostare. Grazie a migliaia di ore di studio e di “machine Learning” i software dei ventilatori polmonari portatili hanno raggiunto picchi di qualità impensabili anche solo 20 anni fa, all’inizio del nuovo secolo. La differenza e le novità sulla ventilazione sono state approfondite in una revisione sistemica con meta analisi, realizzata dagli italiani Tommaso Scquizzato, Federico Moro, Guglielmo Imbriaco, Rosario Losiggio, Luca Cabrini e Filippo Consolo. Il paper “Non-Invasive Ventilation in the Prehospital Emergency Setting: A Systematic Review and Meta-Analysis” ha spunti davvero interessanti: “La ventilazione non invasiva è un standard nella gestione dei problemi respiratori acuti, ed è applicata in maniera esponenziale nei Setting pre-ospedalieri. Ma quando la ventilazione non invasiva precoce riduce la mortalità, rispetto ad una terapia con ossigeno standard? La realtà di 1485 pazienti, analizza in dieci differenti studi, dice una cosa molto interessante: una buona ventilazione non invasiva preospedaliera non riduce i tassi di mortalità, ma di riduce con certezza il rischio di essere intubati a parità di accesso in terapia intensiva e a dispetto della lunghezza della permanenza ospedaliera. 

Insomma, come fare perché la ventilazione manuale sia ottimale?

E’ questa la domanda che si è fatta Kathleen Deaking, Pediatric Respiratory Care clinician presso il Children’s Hospital di Cleveland, Ohio, nel 2012. Tipologie di maschere, perdite nelle giunte, ostruzioni delle vie aeree (per posizionamenti inappropriati), e cambiamenti estremamente rapidi nella capacità di ricevere ossigeno da parte delle strutture polmonari dei pazienti rendono insufficienti i risultati di ossigenazione, o trasformano senza volerlo una ventilazione appropriata in una sovra ventilazione dannosa. “Gli effetti di una pressione manuale positiva durante i primi momenti di una ventilazione possono essere deterioranti e causare ferite interne già dei primi minuti di vita di un paziente pediatrico. Quindi, è imperativo esaminare rapidamente tutti i metodi di supporto, per prevenire danni a lungo termine. Scegliere una ventilazione corretta in un paziente pediatrico è importante. Al di là della scelta, l’accuratezza e la consistenza con cui il caregiver usa il device e il metodo di insufflazione utilizzato sono importanti. Dobbiamo sapere tutto del device, i suoi pregi, i suoi limiti e capire come si applica nei momenti critici. Per una ventilazione manuale di successo serve familiarità, training e competenza manuale. Bisogna avere una strategia d’utilizzo già pronta, e bisogna usare un metodo e un device che assicuri il massimo outcomes per il paziente”. 

Insomma, una cosa è chiara: ancora oggi troppi soccorritori non pongono la giusta attenzione alla qualità della ventilazione, che è uno dei pilastri fondamentali per garantire al paziente un outcome positivo in caso di ripresa delle funzioni vitali. Per questo serve sicuramente un buon training, continuativo ed efficace. Ma, soprattutto, servono device, feedback e impegno per portare la qualità dell’ossigenazione ai livelli raggiunti da un fortissimo training sul massaggio cardiaco. 

 

Foto di Mikhail Nilov