La morte di un neonato incurabile deve essere gestita con attenzione e rispetto non solo verso la famiglia e i parenti, ma anche verso i sanitari. Abbiamo davvero così tanto bisogno di un capro espiatorio, oppure è solo un modo per distogliere l’attenzione da altro?
Nella notte fra il 12 e il 13 novembre la neonata di otto mesi Indi Gregory è deceduta. Queste parole sarebbero già sufficienti per definire l’abisso di dolore, strazio e tristezza che hanno colpito la famiglia della bimba, i suoi genitori, gli amici, i parenti, e lo staff sanitario che ha dovuto comunicare le condizioni di una neonata ai genitori. Staff sanitario che – in Italia come in Gran Bretagna – non è composto da automi ma da esseri umani che percepiscono la sofferenza, la empatizzano, ne vengono feriti.
Indi Gregory e la malattia incurabile all’apparato mitocondriale
La bimba, con una malattia incurabile, è oggi al centro del dibattito politico sul fine vita. Indi Gregory è stata infatti staccata dalle macchine che ne garantivano la sopravvivenza dopo una sentenza dell’Alta corte d’appello di Londra. La sua patologia aveva colpito l’apparato mitocondriale, impedendo alle cellule di rigenerarsi, coinvolgendo gli organi vitali. Allo stato attuale non esiste una cura risolutiva per le malattie mitocondriali.
L’Italia in questa situazione: un tentativo per continuare le cure?
Oggi il nostro paese è coinvolto in questa polemica perché il 6 novembre scorso il Governo Meloni aveva concesso la cittadinanza italiana alla bimba per consentirle il trasferimento al Bambin Gesù di Roma. In questo frangente i giudici inglesi avevano definito l’intervento italiano “del tutto frainteso” perché il trasferimento in Italia della bimba non era nel miglior interesse della piccola. Secondo il sistema inglese, il parere dello staff medico del Trust NHS era chiaro: a settembre 2023 il sistema sanitario aveva chiesto l’autorizzazione a rimuovere le cure di sostegno vitale. La clinica purtroppo non dava scampo a Indi: non c’erano prospettive di recupero, l’aspettativa di vita era molto limitata, i trattamenti che stava ricevendo le causavano un alto livello di dolore e sofferenza, e non vi era alcuna qualità di vita o interazione distinguibile da parte di Indi con il mondo che la circondava. L’ospedale Bambin Gesù aveva dato la sua disponibilità a valutare cure e prosecuzione dei trattamenti. Ma l’evidenza clinica portata dal sistema sanitario inglese era sufficiente, secondo la corte di giustizia di quel paese.
Il ruolo del sanitario in una situazione così delicata come il neonato incurabile
Secondo i medici inglesi il trattamento che la bimba stava ricevendo – nei suoi primissimi mesi di vita – non aveva dato frutti, causava dolore e non sarebbe mai stato risolutivo rispetto alla malattia. La battaglia legale intrapresa dai genitori della piccola secondo la corte d’Appello di Londra, guidata dal giudice Lord Peter Jackson, ha generato nel sistema sanitario “profonda preoccupazione”. Non si è tenuto conto infatti del ruolo e delle pressioni sullo staff sanitario che si è preso cura di Indi e che si sta prendendo cura di altri 12 bambini in condizioni critiche. Mettere “ in situazioni estremamente impegnative” con “tattiche manipolatorie del contenzioso” i sanitari, impedisce loro di curare paziente altamente vulnerabili.
Il fine vita ha una forza distruttiva su tutti gli esseri umani
Stiamo parlando di una situazione estremamente rara. Ma il tema del fine vita ha bisogno, prima di una normativa, di rispetto. Il rispetto è soprattutto una questione di comunicazione e di formazione. Ogni scelta rispetto al fine vita è sacrosanta e intima. Dalla scelta di donare gli organi alla importanza delle decisioni rispetto alle persone che non hanno la facoltà di intendere e volere, ogni scelta deve essere rispettata. Ma c’è un limite su cui non possiamo e non dobbiamo scavallare le prerogative dei medici: l’accanimento terapeutico. La dignità della morte è pari alla dignità della vita.
Che informazione scegliere per capire un evento così doloroso?
In questi momenti bisogna avere rispetto per il dolore. Ma non bisogna dimenticare che tutti stanno soffrendo. I genitori, gli amici, i parenti. E i medici. Gli infermieri. Il pubblico e la cosiddetta “opinione pubblica”. Il nostro semplice consiglio è di rivedere l’intervento sugli aspetti bioetici della donazione di organi dopo la morte. Il webinar vede l’intervento del Dottor Davide Mazzon (Direttore dell’UOC di anestesia-rianimazione dell’Ospedale di Belluno) e dal Dottor Marco Sacchi, responsabile del servizio di trasporto organi, tessuti ed Equipe di AREU. Due interventi che – seppur tecnici – possono aiutare a capire e a sensibilizzare le persone sulla realtà che porta a gestire il fine vita. Un fine vita che deve essere umano rispetto alle condizioni di sofferenza del malato. Nessun medico, nessun infermiere, nessun soccorritore lascerebbe qualcosa di intentato in una situazione critica per la sopravvivenza di un essere umano. Ma c’è un limite che non può essere oltrepassato. Ecco, questo limite non sarebbe da oltrepassare mai. Nè nelle polemiche pubbliche, nè nelle discussioni sui social. L’approccio corretto ad un tema così grande sarebbe il silenzio.