Editoriale di: Roberto Romano (Infermiere e segretario nazionale SISmax)
Pochi giorni fa mi sono permesso di lanciare sommessamente, attraverso il portale di Quotidiano Sanità, un richiamo a decisori e portatori di interesse sulla necessità di proseguire il lavoro, in parte compiuto anche dal sottoscritto nel periodo in cui ho ricoperto la presidenza nazionale SIIET, di riscrittura di una normativa nazionale che regolamenti il sistema di emergenza urgenza. Ho richiamato, ancora una volta, sperando che le mie parole non cadano nel vuoto insieme a quelle di tanti altri, l’attenzione sull’importanza di proseguire sulla strada di una comunione di intenti inter-societaria che ha portato alla scrittura della “Carta di Riva”.
Oggi vorrei portare alcuni spunti di riflessione su quanto, e come, gli infermieri dovrebbero interrogarsi su ciò che dovrebbe essere il loro modo di “stare” nel sistema di E.U.
Che l’infermieristica sia cresciuta, in ruolo e competenze, credo che ormai non sia chiaro solo ad alcuni, pochissimi, detrattori della Professione, esterni ma anche interni ad essa che, per primi, non hanno saputo evolvere con essa o vederne le potenzialità in troppi casi ancora inespresse.
Una riforma come quella di cui stiamo parlando, però, non può essere calata dall’alto e non può non tenere conto delle molte variabili in gioco. Un politico, in uno dei molti incontri avuti in questi ultimi mesi, mi ricordò che “l’Italia è lunga e stretta…”
Aveva ragione. Troppa diversità.
Proprio in queste ore giunge la notizia di controlli a tappeto dei NAS, a livello nazionale, su strutture legate all’area emergenza urgenza. Si controllano i cosiddetti “gettonisti” e le strutture che li gestiscono.
Sarebbe miope, però, non porre una riflessione su questo fenomeno, sulle ragioni profonde che lo generano al di là dei risvolti giudiziari. Personale, magari un tempo assunto a tempo pieno in strutture pubbliche, che si licenzia per lavorare a gettone.
Cosa c’è che non va?
Sul personale sanitario esistono molteplici problematiche. La prima è senz’altro legata alla retribuzione che, inutile nascondersi dietro ad un dito, non corrisponde minimamente al grado di responsabilità ed impegno che viene richiesta al professionista.
Esiste poi un problema “professionale”
Per la parte medica riguarda, probabilmente, la frustrazione di essere inserito in una sorta di catena di montaggio, sulla quale tutto pare riversarsi, che non prevede stacco, riflessione, errore. Sempre meno personale e sempre più sotto pressione. Per la parte infermieristica, accanto a quanto sopra, esiste, in aggiunta, una frustrazione secondaria da competenza inespressa, perché male o non riconosciuta.
Stesso territorio, professioni incomparabili
Sistemi totalmente difformi su tutto il territorio nazionale, nei quali due infermieri presi in due settings di emergenza di due regioni differenti non paiono neppure lontani parenti, da quanto dissimili, limitanti e limitate sono le competenze che viene a questi permesso di esprimere nel sistema stesso, indipendentemente dalla preparazione, anche certificata, posseduta.
Una arlecchinata, quindi, che ha favorito certamente, nel tempo, tanti piccoli direttori feudatari, felici castellani dei loro territori, ma che ha creato ciò che di più distante può esservi dal concetto di universalità ed uniformità del sistema sanitario nazionale.
Comprendere le ragioni del problema
È però importante, se si decide di mettere mano alle fondamenta del sistema, comprendere prima, molto bene, dove queste fondamenta siano effettivamente basate. Comprendere le ragioni delle fughe, non fermandosi alla facile risposta del motivo economico, così come quelle degli accessi, specie per quello che concerne gli infermieri, di personale sempre più giovane e meno formato. Anche in questo caso è il sistema 118 o di emergenza urgenza in generale ad essere sempre più appetibile o si sta solo cercando di evitare di iniziare la carriera in settings sempre meno motivanti e professionalizzanti? In parole povere, l’emergenza urgenza per questi professionisti è il gradino alto verso cui tendere o lo scoglio cui aggrapparsi, come naufraghi, in mezzo ad un mare in tempesta che è un sistema sanitario sempre più allo sbando? Quanto, poi, questo fenomeno certamente patologico potrà durare vista la sempre maggiore carenza di infermieri nell’intero sistema salute nazionale?
Non cedere alla tentazione di essere dei sostituti
In questa confusione totale si assiste ad una demedicalizzazione del territorio a favore di un aumento della presenza infermieristica sulla quale però, come ho appena detto, non vi è da scialare. Bisogna comprendere come la sostituzione di una figura con un’altra, peraltro trattandosi di profili totalmente diversi, non sia da vedere con favore se non come parte di una riorganizzazione e revisione generale delle competenze delle varie figure professionali del sistema. Ogni altra visione di questi movimenti, specie quella “sostitutiva” pura che a molti pare piacere a causa di una vision forse troppo utilitaristica e superficiale, può portare a disastri se non ben governata.
Rimaniamo quelli che fanno la differenza: professionisti, per vocazione, di squadra
La figura dell’infermiere di triage, fondamentale nel sistema, così come i percorsi di see and treat, in molti luoghi mai veramente decollati, o l’infermieristica nelle centrali operative sanitarie rischiano di rimanere soltanto bei titoli che possono, o non possono, essere sviluppati a seconda del luogo.
Quanto sopra è ciò che di più lontano dalla parola “sistema” io riesca ad immaginare.
In tutto questo i professionisti sono e restano quelli che possono fare la differenza.
Forse dobbiamo iniziare ad ascoltarli di più, e ad imparare a coglierne maggiormente disagi ed aspirazioni, per evitare che la prossima riforma, quando verrà, sia solo l’idea, speriamo illuminata, di pochi. Se così fosse, forse, al di là delle buone premesse e dei buoni propositi, non funzionerebbe.